TORINO, CITTA’ CHE ACCOGLIE LA DIVERSITA’


Il gene della diversità culturale è nel DNA della città di Torino. Il suo tessuto sociale si è costruito attorno al convergere di differenze, che hanno dato impulso alla sua crescita economica, sociale e culturale. 

Al di là delle difficoltà che può comportare, Torino ha sempre saputo vivere la pluralità come una ricchezza e ha saputo trarne energia per trovare nuovi stimoli di sviluppo.

E’ questa la prospettiva con cui guardiamo al futuro di Torino, città della super-diversità, in un tempo in cui le identità plurime di ognuno si intrecciano a tal punto che risulta riduttivo “catalogare” i cittadini come appartenenti a gruppi sociali pre-definiti. E’ esperienza comune il fatto che ciascuno di noi transita quotidianamente in più realtà, sentendosi parte di ciascuna di esse: siamo allo stesso tempo torinesi, immigrati, donne, padri, figlie, studenti, anziani, ecologisti, ortodossi, vegani, ispanoparlanti…e chissà quante altre cose insieme!

Gli ultimi anni hanno messo a dura prova questa visione inclusiva (e sicuramente sfidante) della diversità nello spazio urbano. La crisi economica che attanaglia la nostra città da diverso tempo ha congelato politiche di integrazione che stavano cominciando a dare frutto, senza che l’amministrazione in carica abbia saputo reagire mettendo in campo progetti e risorse o valorizzando la sussidiarietà orizzontale, che rappresenta di per sé un bacino di possibilità ricchissimo.

Da qui bisognerà ripartire: dall’esistente, come potenzialità! 

E vogliamo farlo con la metodologia che contraddistingue la nostra proposta politica: fare rete, connettere. Solo attraverso una dinamica che si fonda sul dialogo per favorire la conoscenza e l’interazione è possibile costruire un’integrazione sociale capace di gestire i conflitti che lo spazio multiculturale genera quasi inevitabilmente. Gestire per non esserne sopraffatti. Per non subire il cambiamento, ma indirizzarlo.

In effetti, è probabilmente questa scarsa capacità di “gestire” la diversità e organizzare il pluralismo che ha contribuito nel tempo a creare tensione sociale e fenomeni di ghettizzazione, spesso sfociati in paura. Una paura che non va mai banalizzata, perché è alimentata effettivamente da scenari sui quali la politica per troppo tempo non ha inciso, lasciando i cittadini in balia di flussi e trasformazioni demografici incontrollati.

In condizioni di insicurezza e disagio sociale è difficile che nelle relazioni interculturali si possano davvero vedere occasioni di arricchimento… più facile avvertirne i segni della diffidenza, della chiusura, del timore crescente.

La nostra città è da decenni meta storica di migrazione. Ma sbaglieremmo se non volessimo riconoscere le differenze dell’oggi rispetto al passato. Differenze che ci impongono di predisporre un’azione amministrativa all’altezza delle nuove sfide.

Nel secondo dopoguerra, infatti, la Torino capace di accogliere così tanti italiani e italiane provenienti dalle regioni del sud Italia, al punto da modificare totalmente la morfologia della città, ha accolto i suoi nuovi cittadini approntando un massiccio sforzo di ripensamento urbanistico e sociale dello spazio pubblico. Certo, a distanza di qualche decennio e guardando in prospettiva quanto allora venne fatto, possiamo permetterci, con il senno di poi, di essere critici rispetto ad alcune scelte che vennero compiute allora e che hanno condizionato, per molto tempo e non sempre in senso positivo, lo sviluppo della nostra città, sotto ogni punto di vista. 

Non di meno, questo sguardo critico al passato sarebbe del tutto sterile se non fosse accompagnato da una volontà di imparare per non ricadere nei medesimi errori…o peggio per compiere errori peggiori.

Pur con evidenti limiti, si ebbe allora il coraggio di approntare un piano di espansione sociale e urbana della città al fine di governarla. Non così oggi: al netto di qualche coraggioso intervento, il flusso di immigrati provenienti da paesi comunitari e non, costante ormai da quasi trent’anni, con una flessione a partire dal 2012, è stato assorbito dalla città con una progettualità più tesa all’urgenza che alla pianificazione strategica, incontrandosi e infine scontrandosi con l’esistente, senza che questo processo sia stato governato dalla politica. 

Da anni manca una visione d’insieme sulla gestione della diversità a Torino. E senza visione non c’è integrazione.

Non si vuol con ciò dire che sia mancata volontà di implementazione delle relazioni interculturali. Torino da almeno vent’anni, infatti, ha favorito il consolidarsi di importanti occasioni di emersione, valorizzazione e governance della pluralità. Soprattutto nella sfera del religioso, che è un campo di osservazione privilegiato per chi guarda alla super-diversità urbana. Sono molti, in effetti, i segni di una sensibilità istituzionale verso politiche di interazione pubblico-privato per la gestione culturalmente plurale di spazi come le carceri, gli ospedali, i cimiteri…

E’ incontestabile e deve essere sottolineato il lavoro svolto da organi come il Comitato Interfedi, così come deve essere riconosciuta la rilevante funzione sociale esercitata da eventi come Torino Spiritualità, Moschee Aperte o Iftar street.

A dover essere stigmatizzata è però l’assenza di un progetto di messa a sistema dell’esistente, ovvero l’impegno a mettere in campo politiche di integrazione a tutto tondo, capaci di costruire legami sociali nella diversità, che come abbiamo ricordato va ben oltre alcuni fenomeni mediaticamente esaltati e si manifesta non solo in occasione di eventi topici, dovendo al contrario essere trattata come forma del vivere e dell’amministrare.

Intendiamoci: gli eventi una tantum sono una buona occasione di avvicinamento; ma è nella quotidianità che la paura e la diffidenza devono essere affrontate e neutralizzate. E questo lo si fa abitando il conflitto nei luoghi dove si sviluppa, ossia attraverso la presenza, l’ascolto, l’assistenza, i servizi.

Ogni discorso sull’accoglienza è destinato a restare lettera morta al di fuori di politiche di conoscenza e riconoscimento, ma anche di supporto sociale ed economico. Condizioni di vita degna sono il presupposto per l’avvio di qualunque politica di integrazione. Senza strumenti di emancipazione sociale ed economica quella culturale non sarà mai una scelta consapevole, ma solo una condizione inevitabile, anche non volendo.

Conoscenza e ascolto. Ma anche interazione. Ecco le azioni da cui partire come amministrazione per far emergere le diversità e per trasformarle in opportunità e ricchezza per la città. Calo e invecchiamento demografico sono processi che a lungo andare possono innescare criticità irreversibili. Così come la gentrificazione disumanizzata del centro urbano può aumentare lo stato di solitudine in cui versano alcuni cittadini, estranei nel loro stesso quartiere. La ripopolazione della città attraverso il rinnovamento del suo tessuto sociale può essere una via da seguire, ma è necessario l’intervento della pubblica amministrazione, per invertire la rotta, per intravedere lo sviluppo dove per ora si vede desolazione.

Siamo consapevoli delle difficoltà. Molte. Ma siamo anche consci del potenziale racchiuso in questa diversità che deve essere messa in circolo mediante processi virtuosi, tra pubblico e privato, di cui l’amministrazione locale deve farsi promotrice, svolgendo il ruolo del mediatore, del facilitatore, a volte anche dell’oppositore quando i diritti in gioco lo richiedono. Esiste un mondo di associazioni, organi, comunità attive e capillari le cui potenzialità non possono essere disperse. Una comunità integrata sa prendersi cura di sé: alle istituzioni non spetta di sostituirsi ai cittadini, ma di sostenerli nell’espressione e costruzione della loro identità. Liberandoli dagli ostacoli che impediscono tale espressione.

Torino, città capace di accogliere la diversità diventa così Torino città che si apre alla sua internazionalizzazione. Perché è innegabile che è solo lavorando per trasformare Torino in una città attrattiva sul piano internazionale che sapremo trarre dalla diversità che la anima un’occasione di sviluppo economico e sociale. Una città dove chi arriva ha voglia di restare. Perché si vive bene. Tutti.

La città, infatti, non è e non potrà mai essere un luogo astratto. Essa è uno spazio vissuto, trasmesso, integrato, proiezione dei valori così come del progetto di società che vogliamo, in connessione con il suo passato, ma anche con il suo futuro.