Edmondo Berselli – la Repubblica, del 13-04-2007

Rutelliani, prodiani, parisiani. E poi popolari, laici, liberali, socialisti, ambientalisti. Un vortice, una girandola di congressi, di circoli, di tessere, con un corollario tardo-democristiano di ricorsi e contestazioni. Se c´è un partito versatile, anzi di più, un partito costitutivamente eclettico, questo è la Margherita. Con uno spettro variegatissimo di sfumature, di tradizioni, di ispirazioni, di culture.
In effetti la Margherita è un partito “post”, che viene dopo che è successo tutto: dopo la dissoluzione della Democrazia cristiana, dopo la confluenza dei democratici dell´Asinello prodiano, e soprattutto dopo la fine o la trasfigurazione delle culture politiche tradizionali: «In teoria», dice uno degli esponenti più vicini ad Arturo Parisi, il bolognese Antonio La Forgia, ex comunista di antiche ascendenze ingraiane, «noi siamo il partito più moderno dell´Unione. Con le caratteristiche più profonde del catch-all-party, il partito “pigliatutto” che si rivolge alla società intera con un´idea di modernizzazione del paese». E che perciò non esprime verso il futuro partito democratico le resistenze che si manifestano apertamente o che serpeggiano come una febbre nel corpo dei Ds.
Piuttosto c´è ansia, se non proprio timore, per la «fusione asimmetrica». Cioè per un matrimonio fra partiti squilibrati numericamente, a vantaggio dei Ds. «Non siamo proprio alla ricetta impazzita del pasticcio di allodola e cavallo – dice La Forgia – ma la differenza numerica fra i due partiti maggiori del centrosinistra balza in primo piano in ogni discussione e in ogni ipotesi per il dopo congresso». Ed è riconoscibile anche una specie di continua, evocata, sottolineata “subliminal competition” con il partito di Fassino.
Il paragone fra i due partiti a prima vista è semplice. I congressi dei Democratici di sinistra si sono svolti nel modo più tradizionale e identificabile: la mozione del segretario, con il dissenso strutturale della mozione Mussi, e la fronda della terza mozione, Angius-Zani. Mentre dentro la Margherita i settori di resistenza aperta all´approdo nel Pd sono limitati. Piccole enclave di refrattari. Prevale semmai un´inquietudine, resa esplicita da uno dei giovani leader del partito, Lapo Pistelli: «Le strategie all´interno dei Ds sono chiare; c´è l´eventualità che una parte del nucleo dirigente si stacchi, ma in linea di tendenza non si staccheranno gli elettori. Mentre per noi vale il contrario: il gruppo dirigente è compatto, ma con la rinuncia di un´identità specifica c´è invece il timore di perdere quote di elettori».
Dentro la Margherita si guarda con freddezza ai dati dei sondaggi, che al momento fissano pessimisticamente il Partito democratico a un quarto dell´elettorato. «Intanto il fatto più importante», dice uno degli uomini di punta, il presidente dei deputati dell´Ulivo Dario Franceschini, «è che al Pd la Margherita ci arriva tutta intera, senza defezioni e senza rotture». Sembra un´ovvietà, ma sullo sfondo di questo risultato c´è un lavorio che ha cambiato la struttura del partito. Oggi la Margherita è il risultato dell´incontro di Chianciano dell´autunno scorso, in cui i popolari, capitanati anche simbolicamente dal “tridente” composto da Enrico Letta, Franceschini e Giuseppe Fioroni, hanno riallineato il partito sulla struttura organizzativa degli ex popolari, guadagnando nei congressi locali un largo vantaggio.
Con quale risultato e quali prospettive? A sentire gli uomini del “tridente”, l´avere oggi un partito con un 70-80 per cento di matrice popolare è un risultato tutt´altro che negativo nel momento in cui occorrerà avviare una fase “contrattuale” con i Ds, ossia quando comincerà la convivenza, dopo i due congressi simultanei e in attesa dell´assemblea costituente dell´autunno prossimo.
Ma nel frattempo aleggiano sull´itinerario verso il Pd un paio di problemini tutt´altro che semplici. Che si chiamano nientemeno Rutelli e Prodi. Per quanto riguarda il presidente della Margherita, al momento il suo ridimensionamento è indubbio. Dovrà reinventarsi un ruolo puntando sul fatto che la sua figura è la garanzia formale e sostanziale che il Partito democratico non sarà una riedizione minore del compromesso consociativo fra sinistra democristiana ed ex Partito comunista.
Quanto al premier, il discorso si fa delicato: perché Prodi va considerato il padre fondatore, possibilmente il futuro presidente del partito democratico, il federatore di una iniziativa che rivoluziona il centrosinistra e la politica italiana, e che a suo giudizio non si conclude affatto con la fusione fra Ds e Margherita. Ma per l´ala più esplicita della Margherita, rappresentata ad esempio dal sindaco di Venezia Massimo Cacciari, «Prodi è un hapax legomenon, termine filologico per indicare un termine unico, che ricorre solo in quell´autore. Pensa di poter governare il Paese e poi anche il futuro partito, soltanto dalla posizione di presidente del Consiglio».
Liquidato anche Prodi? No, ma si ha la sensazione palpabile che con il Big Bang costituente si assisterà a un cambiamento radicale nella politica del centrosinistra. Prodi ha scritto all´Unità che auspica un «partito dei cittadini», aperto alla società civile, ai movimenti, alle associazioni. Dimostrando così che non ha nessuna intenzione di assistere da spettatore passivo alla genesi del nuovo partito. Anche il capo del governo sa bene che finiranno al macero alcuni schemi che nell´ultimo decennio hanno dettato il codice di comportamento della politica italiana. Come dice Franceschini: «Forse non ci siamo ancora resi conto che con la nascita del Pd finiscono tutte le rendite di posizione. Non basterà più qualificarsi come i più moderati della coalizione per guadagnarsi le candidature. Non ci sarà più la figura dell´uomo di garanzia elettorale, il moderato che traghetta la sinistra nell´area del governo. Dentro il Partito democratico saremo tutti uguali, e questa è più o meno la rivoluzione».
Il che significa che il processo costituente sarà verosimilmente movimentato. Se Fassino si sente legittimato a concorrere alla leadership del Pd, altre figure nutriranno la stessa ambizione. E non va perso di vista un aspetto destinato a complicare ulteriormente i giochi: nella politica postideologica le aggregazioni di partito si formano intorno a una leadership. Quindi nella Margherita tutti sanno benissimo che si porrà il problema di decidere se il capo del Partito democratico sarà anche il candidato dello schieramento alle elezioni politiche e quindi alla premiership. «Credo che in un primo momento sarà opportuno tenere distinte queste due posizioni», commenta Giulio Santagata, ministro per l´attuazione del programma, l´uomo più in vista della piccola pattuglia prodiana. Anche perché tutti sanno che nell´arco temporale dell´effettivo varo politico del Pd, di qui alle elezioni europee del 2009, la fusione fredda dovrà scaldarsi fino a far emergere una leadership nuova: «Inutile metterci un´ipoteca adesso.
E su questo tema si riscontra effettivamente la duttilità della Margherita, di cui fa parte anche la tradizionale disponibilità democristiana alla scelta pragmatica del leader. Per i Ds, la corsa alla posizione di vertice può essere l´ultima battaglia per lo sdoganamento dello sdoganamento, la perfetta legittimazione senza più residui o riserve mentali. Invece per la Margherita, la gara per la leadership è più che altro un modo di fare politica nello scenario nuovo: «Ognuno dovrà metterci del suo», ridacchia Franceschini, proprio perché non ci saranno diritti ereditari da far valere. E La Forgia, con un realismo che viene da lontano: «I Ds hanno una forza elettorale superiore, ma a ben guardare la Margherita è già una specie di partito democratico. Tanto per capirci, noi, al casino, ci siamo più abituati».

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